venerdì 5 agosto 2011

PROCESSO SOMMARIO PONCIONI 1796

ASSOCIAZIONE AMICI DI COMOLOGNO

Conferenza di Luisa Pesenti Marconi

venerdì 29 luglio 2011 – ore 20:30 – Palazzo comunale di Comologno/Onsernone

L’emigrazione onsernonese nel XVIII° secolo

In margine al lavoro di Luisa Pesenti, eccovi la vicenda di Giuseppe Poncioni 1755 – 1796, fucilato in Val d’Intelvi. Con un processo sommario fu accusato di detenzione d’armi e simpatia per l’Impero Austriaco in una Lombardia occupata dalla Francia con Bonaparte.

Da

“IL RISORGIMENTO”

ANNO V – N. 1 - MILANO, FEBBRAIO 1953 - P. 543

Estratto con timbro “Biblioteca Cantonale – Lugano”

Un processo politico sommario in Val d’Intelvi nel 1796.

Gaspare Rezia, membro del Comitato di Polizia di Como, il 23 novembre 1796 riceveva l’ordine, da parte della Centrale di Polizia di Milano, di portarsi subito nell’alto Comasco per investigare sullo spirito pubblico. Il Rezia si recava dapprima in Val Cavargna e la trovava tranquilla. Poi passava in Val d’Intelvi e qui raccoglieva parecchie novità. ……..Interrogando, senza averne l’aria, i “buoni e veri repubblicani” il Rezia venne a sapere che a Scaria, un tal Poncioni si esprimeva pubblicamente contro i francesi, cercava di sobillare la pacifica popolazione e teneva armi nascoste in casa.

Ordinava all’attuario criminale di Osteno, G.B. Sormani, di aprire un’inchiesta.

Il Sormani, coi birri, si portava a Scaria, requisiva un locale nell’osteria della Sisina per non allarmare il paese e verbalizzava le deposizioni di due testi. Il primo, Giovanni Medici di Scaria, ventiduenne, mugnaio e cavallante e servitore del Comune, dava del Poncioni il seguente ritratto politico: “Io so che egli è dedito all’esaltare la nazione tedesca e sprezzare la francese”. In piazza pubblicamente tacciava di “cattivi li francesi” e si vantava “che ci sarebbero stati poco”. Quando entrarono in maggio si offerse di rifornire il deponente di armi, aggiungendo:” Sent Giovan, ho paregiaa i sciopp da sparà contra i frances e stand al me pogiö vöri mazan paricc se fan tant da vegni chi”.

Simile offerta fece anche dopo che era stata ordinata la consegna delle armi: così, c’era da pensare che ne tenesse di nascosto.. Uscito poi l’Editto che obbligava a portar la coccarda tricolore, il Poncioni ostentò sempre di far il contrario, e investì una volta il Medici dicendogli: “Ta la tö giò quella cocarda, che già prest vegn i tedesch chi ta la farà tö giò per forza”; e lo stesso tentò di fare con un giovanetto all’uscita della messa domenicale.

L’altro teste, Andrea Fontana di Val Introgna, ma abitante a Lanzo per ragione di mestiere (faceva il carbonaio) confermò la deposizione del Medici aggiungendo che aveva più volte sentito dire che il Poncioni deteneva armi “con le quali arrolare soldati per l’Imperatore”.

Non occorreva altro. Il Sormani, coi birri, quantunque fosse già notte alta si portava in casa del Poncioni e “coi lumi accesi” la perquisiva da capo a fondo. Il Poncioni, che dormiva con la moglie, destato di soprassalto, si fece trovar subito una pistola “a palla calcata” sotto il pagliericcio. In un armadio furono rinvenuti “un fiaschetto d’osso nero” con polvere da sparo, un coltello “di genere proibito” e dodici berrettoni “di pelle di caprone nero ad uso di quelli de’ granatieri dell’Imperatore”. In cantina, “quattro mortaletti piccoli di ferro e uno più grande”; e in solaio, occultati sotto la foglia secca, tre fucili carichi “incassati all’uso delle schioppette da caccia” in una custodia di tela.

Arrestato, il Poncioni, mentre lo portavan via, verso le carceri di Osteno, si giustificò dicendo che armi ne avevan anche “tanti altri” e fece qualche nome, quello di un Gregorio Cavallini di Verna e di un Antonio Maria Meles di Ramponio.Stando al Rezia il Poncioni avrebbe fatto altri nomi: ma nel costituto non appaiono. Il Rezia avrebbe voluto far subito una perquisizione generale, ma si limitò a quella del Cavallini e del Meles, in due paesi diversi, temendo che “si potesse sollevare il popolo e far qualche malagevole ammutinamento col di troppo perquisire nelle case”. La perquisizione in casa del Cavallini diede esito negativo. Non così quella presso il Meles, il quale, scorti i birri che si avvicinavano, fuggì buttandosi alla montagna. Ecco l’esito della perquisizione: tre “canne d’archibugio”, cinque “canne di pistola di misura”, sette “schioppi incassati” di cui uno carico, una lama di sciabola, un’altra “con camera e fodero” e sedici acciarini “alla romana e alla bresciana”. Il Meles, occorre aggiungere, era armaiolo di professione e “aveva sempre travagliato nella formazione di moltissimi arcobugi di monizioni per gli abitanti della Svizzera”. Fu spiccato, contro di lui, mandato di cattura.

Il 2 dicembre fu interrogato il Poncioni. Queste le sue generalità: Giuseppe Poncioni, di Innocente, di Scaria, d’anni 41, già oste e “postaro del sale e tabacco e polvere”, poi muratore, ora merciaiolo (“merciadro”). Si assenta frequentemente dal paese, per ragion di mestiere, dalla parte di Arogno. Viene così descritto: statura media, colore olivastro, volto magro, barba e capelli neri “legati per diddietro in coda e ricci alle facciate”. Porta un berrettone bianco di bambagia rigato di rosso e, sotto quello, una “capellina di feltro nero con davanti una coccarda di seta francese”. Porta marsina di panno vinato smorto, camicia di tela bianca “casarenga” abbottonata sotto il mento, corpetto bianco con bottoni “di composizione” calzoni verdi abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana bianche, scarpe di vacchetta. Invero poco repubblicano, o antiquato, nel costume: mentre segni evidenti d’animo libero – dice con ironia il Cantù – erano allora i calzoni lunghi e le chiome scorciate.

Il Poncioni, che il Medici aveva definito “uomo facceto”, all’atto di essere interrogato “sta col piede destro sopra il sinistro, col capo chino e tutto concentrato”. Alla prima domanda, se sappia la ragione del suo arresto, risponde con scoraggiante remissione: “Cosa serve mai a pensarvi sopra! …”. Poi cerca di spiegare la presenza delle armi: pistola e fucili per difendersi dai ladri, ultimo arnese rimastogli da macellaio il coltello, la polvere era un avanzo di quando faceva il “postaro”, i mortaretti e i berrettoni servivano per la sagra del paese “e in tale occasione si adopravano per fare li soldati”. Sa, “purtroppo”, che era proibito tener armi in casa, lo fece “essendo troppo attaccato all’interesse” e sperando “che non gliele trovassero”. Non che qualcuno l’avesse sconsigliato di consegnar le armi al cancelliere del comune. Lo consigliò soltanto la sua “troppo interessata oppinione”. Non nega di essere stato, sul principio, nemico dei francesi, di aver tenuto quei discorsi, che sappiamo, col Medici, d’avergli offerto armi. Ma aggiunge come attenuante: “Io feci tali esibizioni giacchè mi diedero a intendere essere la nazion francese, e specialmente quella entrata in Milano, cattiva gente e tutti ladri” e che gli Austriaci sarebbero ritornati presto. Quando poi conobbe “le bonissime qualità” dei francesi cangiò di parere “e mi diedi subito del partito Repubblicano per cui porto ed ho portato sempre la coccarda tricolorata”. Sa di armi depositate dai terrieri di Lanzo alla Cassina Bovisio, “sul labro del confine svizzero, in sito ripido e disastroso”.Non gli resta altro da dire se non invocar clemenza: “Eccomi nelle loro mani, io ho detto la verità e prego loro Signori ad avere di me pietà e commiserazione”.

Fu ricondotto in cella e il costituto, affidato a un corriere, prese la strada di Milano per le decisioni del caso. Intanto la polizia, “ad onta dell’eccessivo freddo”, saliva alla Cassina Bovisio arrivandovi alle due dopo la mezzanotte, sfondava la porta ma non vi trovava traccia di un solo fucile. A giorno fatto si portava a Lanzo e requisiva, presso il sindaco della Confraternita, un bandiera quadrata di seta bianca e rossa e un tamburo militare “con arma imperiale dipinta davanti”; e un’altra bandiera (sbrindellata) e un altro tamburo (mezzo sfondato e senza stemmi “aristocratici”) sequestrava a Scaria. Parvero eccessivi e qualche po’ ridicoli quei sequestri (bandiere e tamburi servivan per la sagra) e si giustificarono nel senso che “non era prudenza nelle presenti circostanze il lasciare in paese di tali cose” che avrebbero potuto servire “per fare unioni di genti”.

La sorte del Poncioni dipendeva dal Comandante la Lombardia generale Baragueij D’Hiliers: il quale il 6 dicembre sentenziò per la pena di morte, applicando la legge contro i detentori abusivi di armi. Affidò l’esecuzione al capitano Gibert che verso il mezzogiorno del 10 dicembre giungeva a Porlezza con un distaccamento di 50 soldati francesi, su due barche cannoniere. Il tempo di compiere il breve tragitto a riva di lago fino a Osteno, di trarre il Poncioni dalla cella, di chiedergli se quanto aveva deposto era la verità(rispose: “Purtroppo è la verità”) di leggergli la sentenza, ed esecuzione fu fatta, per fucilazione, nella piazza di Osteno presente il popolo, le autorità e Gaspare Rezia.

Per espressa volontà del defunto il cadavere fu portato in chiesa: e “non essendo comparso alcuna persona della sua famiglia a domandarlo” vi fu sepolto.

Tutto ciò si legge nel non voluminoso ma preciso incarto processuale che porta la firma dell’avv. Angiolo Maria Stoppani, pretore di Osteno e del not. G. B. Sormani, attuario criminale. Il documento è conservato nell’Archivio Cantonale di Bellinzona, Fondo Famiglia Stoppani, 125…………

Firmano: Giuseppe Martinola

Contesto storico

Dominazione austriaca

http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/storia/?unita=03.06

Lombardia 1796

http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/storia/?unita=04.01

Epoca napoleonica

(cronologia)

http://www.libercogitatio.org/storia/epoca-napoleonica-cronologia.html